martedì 24 dicembre 2013

CRESTE NATALIZIE


Questo 2013 è stato un anno lungo, pesante e difficile un po' per tutti. Guardandomi intorno non ho visto molti colori e molti sorrisi. C'è una resa incondizionata alla paura e alla solitudine. Sono andate via delle persone care, qualcuno è sparito, qualcun altro è tornato con un gioco di prestigio. Ci sono stati baci, birre condivise e parole affilate come coltelli. Ho zoppicato e ho salito molte scale. Ho sudato e non sempre sono stato capito. Ho pubblicato un libro che cerca di sopravvivere nella giungla dell'editoria. Mi sono sentito solo e mi sono sentito amato. Ho sognato un gatto. Ho fatto da papà alla mia mamma. Ho letto libri bellissimi. Qualcuno mi ha detto con gli occhi che sono speciale. Qualcun altro mi ha detto a denti stretti che sono un pezzo di merda. Tutto relativo. Sono entrato in carcere e mi ci sono trovato bene. Ho provato ad ascoltare il mio cuore e solo il mio cuore e non sempre il segnale era limpido e chiaro. 

Ho scelto di non fare l'albero di Natale. Ho scelto di non farmi incantare dalle lucine. E forse ho fatto male. Perché la magia dell'infanzia la ricordo ancora, quando non dormivo in attesa dei passi di un Babbo Natale che mi doveva portare i doni elencati nella letterina spedita un mese prima verso un luogo lontanissimo e con molta, molta neve. Vorrei avere ancora quella luce negli occhi, quella fervida speranza... e invece, mi sento stanco e appesantito e questa sensazione non mi piace, non mi piace per niente. 

L'altro giorno sono andato allo spettacolo della fratellanza dove si esibiva la mia nipotina Lady Bubba (una popstar in famiglia ci vuole!) e guardando la spontaneità e la gioia dei bambini mi sono incantato e innamorato. Vedere i bimbi senegalesi con i loro sorrisi immensi, i loro occhi di un nero profondissimo, i loro vestiti colorati e le acconciature afro della bambine, mi ha smosso il cuore. E così vedere mia nipote cantare la canzone di Natale, emozionata e composta, con i suoi amici del coro vicini per dare forza ai ritornelli. Ecco, non lo so, mi sono sentito avvolto da una bella sensazione. La vecchiaia fa brutti scherzi, vero?

E così ieri, ultima lezione in carcere del 2013, mi sono emozionato quando Carmelo è arrivato in classe con i cannoli preparati da lui e con una grande bottiglia d'acqua perché lì non si possono bere alcolici. Ho mangiato quel cannolo con una bellissima sensazione d'amicizia e condivisione. Tutti presi dai dolci, tra chiacchiere e risate, mentre le telecamere ci riprendevano per amplificare mille volte quell'immagine di fratellanza. Alla fine della lezione ci siamo salutati e ci siamo scambiati gli auguri. Raffaele mi ha raccontato che stanotte potranno organizzare la cena di Natale con gruppi di persone che non devono superare le 9 unità. Quindi, i detenuti di tre celle, si uniranno in una cella e festeggeranno la vigilia insieme. Mi ha detto di avere nel frigorifero comune anche il salmone dentro la borsa con il numero della cella. 
"E nessuno prende mai niente?" ho chiesto.
"Certo, capita che qualcuno prenda qualcosa che non è suo. Ma qui le cose vanno in un certo modo e non puoi fissarti sui particolari. Devi solo pensare che qualcuno aveva voglia di salmone e che va bene così. Siamo tutti nella stessa situazione. Ma in generale... c'è rispetto delle cose degli altri."
"Sono certo che sarà una cena buonissima!"
"Fatti arrestare così ceni con noi... una rapina senza spargimento di sangue... solo per entrare qui. Se siete in 4 si parla di organizzazione criminale, anche se siete 4 sfigati, e arrivi dritto dritto qui..."
Io ho riso.
"Facciamo così... quando uscirai tra qualche anno mi chiami e ti porto a cenare fuori. Meglio, no?"
"Davvero?"
"Promesso."
Raffaele mi ha sorriso e mi ha stretto la mano con due lucciconi negli occhi chiari.

Ecco, io, il mio Natale l'ho già avuto e questa sera penserò a quel salmone buonissimo che avrei voluto assaggiare.

Buon Natale anche a voi. 
Mettete a riposo le creste, le borchie e i ringhi cattivi e incazzosi e arrendetevi alla normalità. Fare i buoni, ogni tanto, non guasta. In fondo, per fare gli alternativi, se ci pensate bene, vi restano altri 364 giorni.

P.S. - dite che è troppo tardi per fare l'albero? :-)

giovedì 19 dicembre 2013

A VISO COPERTO di RICCARDO GAZZANIGA


Dire che ho letto questo libro non è esatto.
Io, questo libro, l'ho divorato. 
E l'ho fatto come mi capita con i libri di Stephen King e di Niccolò Ammaniti; con una foga e un'urgenza che mi era impossibile controllare e che mi impediva di andare a letto perché dovevo sapere assolutamente come andava a finire. Poi, esausto, mi rassegnavo - parliamo di 530 pagine - chiudevo il libro e spegnevo la luce. 
Il romanzo, sulla carta, non mi incuriosiva molto: l'idea di uno scrittore-poliziotto che racconta dalla trincea gli scontri tra ultras e celerini, mi eccitava quanto un porno trasmesso alla radio. E invece ci sono entrato eccome dentro quella trincea e ho ascoltato le voci dei tanti personaggi, ho assorbito le motivazioni più intime e profonde - spesso folli, estreme e autolesioniste - e mi sono trovato in mezzo alla guerriglia, alle botte, alle bandiere, ai sussurri e alle grida. 
Ma non c'è solo questo nel romanzo di Gazzaniga, ci sono anche le storie private, le svolte del destino, i dolori, le gioie, le delusioni di uomini e donne, di padri e madri, di figli e figlie. Si ascoltano le aspirazioni di chi spera di cambiare vita, le tribolazioni di chi deve gestire un amore spento, un figlio fragile, una prima volta, un senso di colpa ingombrante, un desiderio di dominio e distruzione, il sogno di un libro che parla esattamente di quelle cose che racconta il romanzo che stai leggendo. 
Gazzaniga è bravissimo nel tratteggio psicologico dei tanti personaggi che si muovono in uno scenario cittadino livido e spettrale, e non giudica mai le scelte, le azioni, le motivazioni dei suoi eroi senza gloria. Si limita a narrare le evoluzioni della tragedia con grande controllo stilistico. 
Memorabili le scene di massa che descrivono gli scontri. Gestire tanti personaggi, tanti fili narrativi non è un'impresa facile e l'autore ci riesce con mano felice. 
Io ho amato in modo particolare le parti dove si raccontano gli interni dei personaggi, interni fisici e psicologici , interni che colorano di solitudine, amarezza, rabbia, speranza e amore i gesti quotidiani di ultras e celerini. 
Un affresco lucido, tenero e spietato della società di oggi. Ci sono anche molti riferimenti alla cronaca recente. Si affronta il ricordo ingombrante del G8 di Genova e lo si fa con passo lieve e rispettoso. 


Il romanzo arriva dal Premio Calvino. Ha vinto l'edizione del 2012 e merita di essere letto per capire riti, ruoli e meccanismi assolutamente oscuri per chi, come me, non è mai andato allo stadio per vedere una partita di calcio con una spranga sotto il giubbotto. 
Ci sono anche delle curiosità che mi hanno fatto sorridere: vedi un poliziotto sassarese che si chiama Gavino Tau e ha una parlata molto marcata. Quando l'ho incontrato nel romanzo ho pensato subito a quello che mi aveva rivelato l'autore durante una presentazione, ovvero, che era fidanzato con una ragazza di Sassari e conosceva bene la mia città e la cadenza inconfondibile dei suoi abitanti. 
Mica capita tutti i giorni di trovare un personaggio sassarese in un romanzo così importante!
Un altra cosa che mi ha colpito è l'uso continuo dell'esortazione "dài" da parte di tutti i personaggi. In una pagina ne ho contato ben quattro. Qui ci sono alcuni esempi che ho estrapolato a caso da una decina di pagine:
"Dài, vai all'accettazione, " disse il funzionario.
"Dài, Nico, calma. Vedrai che ti risponderà."
"Dài, resisti, dài!"
"Dài, andiamo! Entriamo!"
"Dài, porcoddio! Carichiamoli!"

Ora mi viene un dubbio: forse a Genova si usa moltissimo e quindi non è strano spalmarlo nella parlata di tanti personaggi o, forse, è un vezzo puro dell'autore che l'editor non ha pensato di correggere o limitare. 

Detto questo, e tralasciando la mia caccia personale ai tantissimi "dài" - a volte non si sa proprio come passare il tempo quando non si gioca a Candy Crush Saga - il romanzo è una delle cose più interessanti e avvincenti che ho letto nel 2013. 

lunedì 16 dicembre 2013

COSE INUTILI NECESSARIE


Ieri sera, tornando a casa dopo un giro dentro la brodaglia del centro cittadino, ho ascoltato un programma radiofonico dove lo speaker invitava le persone sintonizzate a inviare un sms per raccontare le cose assurde che gli è capitato di comprare in un negozio. Quelle cose che non ti servono e non sai neppure dove mettere, ma che acquisti solo perché sono così belle, folli, colorate, particolari che sembra quasi che non ne possa più fare a meno. Le risposte sono state spiritose, e in alcuni casi esilaranti; vedi un cagliaritano che ha comprato dei doposci anche se non è mai andato a sciare, o un tipo di Milano che ha comprato una bellissima cuccia di cane anche se non ha un cane. Per non parlare del tizio che ha comprato una borsa da trasporto per chihuahua, nonostante il suo cane sia un alano. Penso sia capitato a tutti di comprare cose che poi non hanno mai utilizzato. Io mi perdo anche negli acquisti più normali. Non conto più le camicie e i maglioni che ho comprato e non ho mai indossato. Quando sono in negozio davanti allo specchio mi sembra tutto fighissimo, quando poi torno a casa e misuro i capi in camera da letto, mi sembrano orribili e inadatti al mio fisico. La mia battaglia con le camicie slim si perde nella notte dei tempi... magri andati! Mi vedo come un salamino dentro un preservativo troppo stretto. Ho comprato anche oggetti inutili. Ciotole per la casa così grandi che non so dove mettere e come usare, lampade che non illuminano, scarpe scomodissime, un macchina per fare il formaggio neanche fossi la Parmalat, un set per pic-nic... e io non ho mai fatto un pic-nic in vita mia perché con la bella stagione lavoro in ristorante, manubri per allenare le braccia che prendono polvere sotto il letto... insomma... tutti tentativi falliti di cambiare la mia vita. 

Ieri, comunque, mi sono mosso per compare un regalino alla mia mamma.
Individuato il negozio, sono entrato e ho chiesto subito l'oggetto più inutile presente nel negozio. E sì, perché a mia madre non puoi regalare cose utili, non se ne fa proprio niente; ti guarda male e ti chiede: ma per chi mi hai preso? Mia madre è attratta dalle cose che luccicano come le gazze ladre. Più una cosa luccica e più lei è felice. Forse farebbe carte false per avere un faro tutto suo da guardare dagli spuntoni di una scogliera, e se avesse vent'anni oggi, sono sicuro che farebbe la cubista in qualche discoteca della zona. Vuoi mettere tutti quei fari colorati che ti accendono le stelline dorate che ti sei incollata sulla pelle?
Speriamo che la mia scelta inutile soddisfi il suo bisogno di vacuità.

P.S. - io, per non creare equivoci e situazioni spiacevoli - vedi sorrisi falsi e di circostanza dopo aver aperto un pacco - , ho chiesto a Babbo Natale un Minipimer. Poco romantico, lo so... ma mi sono rotto di spremere le verdure con la forchetta. 

domenica 8 dicembre 2013

IL MATTINO HA L'ORO IN BOCCA


In questi giorno il mio libro DOMANI SARÀ UN GIORNO PERFETTO è presente alla Fiera della media e della piccola editoria, ovvero, Più libri, più liberi, che si tiene a Roma, nel palazzo dei congressi all'Eur. 
Siamo arrivati alla seconda edizione e nei prossimi mesi, con la Farnesi Editore, speriamo di camminare ancora un bel po' con questo libro che per me rappresenta un salto verso l'ignoto. C'è dentro tanto di me... c'è passione, dolore e anche speranza. C'è quello che volevo raccontare. E soprattutto c'è il seme di quello che spero continui a crescere nel mio giardino di sogni e fantasie. 
Ho fatto diverse presentazioni, ho incontrato tanti lettori, ho collaborato con delle persone stupende che non ringrazierò mai abbastanza, ho conosciuto librai, giornalisti, scrittori, bibliotecari, appassionati, malati di parole... e ho cercato di tenere botta nonostante la mia timidezza e la mia eterna inadeguatezza. 
La mia storia, piccola e intima, ha deluso sicuramente molti addetti ai lavori. E a tutti i silenzi che interpreto come delle delicate omissioni per non ferirmi, posso solo rispondere con le belle parole che mi sono arrivate in mille modi dai lettori che mi hanno dato fiducia. Perché non sai mai dove può arrivare una storia. Ti illudi di controllarla, ma lei, alla fine, fa quello che vuole.
Leggo sempre tantissimo. Sono curioso e insaziabile. Mi piace scoprire cosa scrivono scrittori lontanissimi e a volte vicinissimi alla mia sensibilità. E alla mia naturale insicurezza, dico... molla la presa... dammi aria e fammi godere queste piccole gioie. 

Da qualche giorno ho ripreso un progetto abbozzato nel mese di giugno. Non sarà facile questa nuova sfida. So già che dovrò sudare parecchio per portare a casa la storia. Ci vuole pazienza. Ci vuole tempo per ascoltare la voce dei personaggi. Ci vuole orecchio e naso per riconoscere l'odore del tuo nuovo mondo. Uno scrittore lavora anche quando vive. Se non vive non c'è linfa e non c'è fuoco per far camminare le storie future. Oggi mi ci sono bagnato le mani e i piedi in questa storia. Mi sono incazzato davanti alla pagina bianca per quel silenzio ostinato che non mollava la presa, e alla fine, non so come, qualcosa è arrivato. Un ricordo... una sensazione... e le parole sono scivolare fuori come onde. 
Molti lettori mi chiedono: quando uscirà il prossimo libro?
E io rispondo: non c'è nessuna fretta. Ancora non mi sono fatto il fiato per arrivare al traguardo con le braccia alzate al cielo. 

In questo momento non sono solo nel silenzio di questa sala immensa. 
Loro, i personaggi, mi guardano come tanti fantasmi e mi sorridono. Qualcuno suona una musica malinconica e una mano sottile mi chiama per danzare... solo stelle e parole... vedi? Solo stelle e parole... 

Prego maestro...

martedì 3 dicembre 2013

CRONACA DI UNO SBARCO SULLA LUNA


In questa storia non ci sono astronavi, tute spaziali o navicelle sonda.
Non ci sono neanche Shuttle, esercizi in assenza di gravità, pillole supervitaminiche e proteiche, tastiere con miliardi di bottoni e luci spia. Mancano del tutto propulsori, alette, visori, satelliti… insomma, non c’è nulla di tutto quello che ti aspetteresti di trovare in una storia che racconta uno sbarco sulla luna.
Forse, a voler trovare qualcosa di “fantascientifico” tra le sue righe, c’è qualche traccia residua di un vecchio telefilm che guardavo da ragazzo.  
C’è la luna, c’è la Base con i suoi corridoi infiniti, ci sono le sbarre, i cancelli, le serrature invisibili… ma soprattutto ci sono loro, gli alieni.
Mancano la dottoressa Russel, il capitano Koenig, il pilota Alan e la mutaforma Maya, capace di assumere le sembianze di qualsiasi organismo vivente, o almeno così ho pensato quel primo pomeriggio di novembre in cui, per la prima volta, ho messo piede dentro il carcere di massima sicurezza di Nuchis.
Sono entrato in quel mondo parallelo soltanto con il mio corpo e ho lasciato fuori tutto il resto: borsa, cellulare, ombrello, fazzoletti, agenda. Ho superato il primo cancello con una busta di plastica piena di libri nella mano destra e ho seguito il mio Virgilio con la testa piena di pensieri e paure. Giovanni Gelsomino, insegnante di scrittura creativa e giornalista, mi indica il basso edificio grigio, sotto un cielo plumbeo che non promette nulla di buono, e mi dice a mezza voce; “Guardati in giro… non perdere un solo particolare di quello che vedrai”, e me lo suggerisce mentre aspettiamo pazienti che la guardia di turno si accorga delle nostre figure infagottate vicino al cancello. Un segnale, uno scatto, una vibrazione e finalmente la serratura elettronica si apre e ci permette di entrare nel vasto cortile. Cammino in quello spazio di cemento con una strana sensazione che mi blocca il respiro in gola.
Quando Giovanni mi propose di affiancarlo nel corso di scrittura creativa che stava organizzando con i detenuti del carcere, tentennai, indeciso e spaventato dalla portata dell’evento.
«Ma perché io? Pensi che sia all’altezza? Non lo so… davvero… cosa devo fare?»
Tutte domande che cercavano di creare un cordone di sicurezza tra me e quel progetto che mi atterriva e affascinava nello stesso identico istante.
«Documenti prego» ci chiede la guardia che ci ha aperto il grande cancello. «Voi siete?»
«Scrittura creativa» risponde Giovanni.
«Scrittura creativa? Bene… avete con voi chiavi, cellulare, portafoglio?»
«No, niente. Solo i libri per la biblioteca.»
Io, nell’attesa che la guardia verifichi le nostre autorizzazioni, guardo le file di monitor che inquadrano angoli e corridoi segreti del carcere, e seguo i movimenti delle piccole figure che si muovono dentro quegli acquari bluastri con una strana sensazione di estraneità. Giovanni mi sorride per darmi coraggio e io continuo a chiedermi: ma cosa ci faccio qui dentro?

Quando passiamo attraverso la porta girevole – una porta identica a quelle che vedo sempre all’ingresso della mia banca… una di quelle che inizia a suonare se hai del metallo addosso – lo sbarco sulla luna è, di fatto, già avvenuto. Quella porta girevole è come un varco dimensionale che ti trasloca altrove; in un mondo altro dove le regole sono tutte da riscrivere e da rimparare.
Attraversiamo un lungo corridoio e poi un’altra porta blindata. Un cortile con la pavimentazione di cemento… un’altra porta blindata. Un altro campanello da suonare… un’altra guardia che deve sbloccare il meccanismo per farci entrare. Passiamo oltre. Ripetiamo i nostri nomi.
«Volontari?»
«Sì… corso di scrittura creativa.»
«I vostri nomi, per favore…»
«Deffenu, Gelsomino.»
«Ok, potete andare… a dopo.»
Altra porta, altro scatto, altro corridoio. Ci vuole pazienza. Bisogna frenare il passo e attendere. Questa è la prima cosa che imparo subito dopo lo sbarco. In un certo senso è come muoversi in assenza di gravità. Ogni gesto deve essere calcolato e previsto. Nulla si può dare per scontato come facciamo nel mondo di fuori. Qui un passo è un passo diverso. Più pesante, pensato, valutato.
Seguo Giovanni prendendo confidenza con lo spazio e cerco di farmi coraggio tra quelle pareti anonime dove spicca il grigio e un verde acqua vagamente acido.
Andrà tutto bene. Stai sereno… stai sereno.
Attraversiamo altre due porte e finalmente, una guardia, ci porta verso l’aula dove si svolgerà la nostra lezione. Entro nella stanza e mi guardo intorno per calcolare lo spazio disponibile. Una lavagna, una scrivania, una decina di banchi. Finestre con sbarre che si affacciano su un cortile interno. Fuori vedo solo dei caseggiati bassi – ali dello stesso carcere – e delle basse colline sovrastate da nuvole grigie.
Apro il primo cassetto della scrivania e ci trovo una copia di Metropolis di Flavio Soriga e un romanzo di Fois di cui non ricordo il titolo.
Ci raggiunge un’educatrice vestita in modo casual e comincia a spiegarci che i detenuti sono contenti del corso.
«La risposta sembra più che positiva, almeno da quello che ci dicono. Ora arrivano… li stiamo avvertendo che siete qui e non tarderanno molto.»
Passano pochi minuti e i detenuti cominciano a entrare nell’aula.
Tutti, nessuno escluso, mi salutano stringendomi la mano. Sorridono e il loro atteggiamento è educato e cordiale. Dopo le presentazioni si accomodano nei vari banchi e la lezione può iniziare.
Giovanni rompe il ghiaccio dicendo che sono un giovane scrittore che ha appena pubblicato un libro (giovane... vabbé... diciamo giovane). Prende una delle due copie  che ho portato con me e dopo un breve preambolo incita i detenuti a interagire con il sottoscritto che, fino a quel momento, è rimasto zitto come una statua o come uno stoccafisso. Fate voi.
«Potete chiedere tutto quello che volete e Carlo risponderà senza problemi a tutte le vostre curiosità.»
Le domande sono state tante e tutte precise e circostanziate. Alcune molto tecniche, altre più leggere. A volte le voci si accavallano per la voglia di aggiungere un pensiero o un’opinione, ed era difficile rispondere a tutti senza perdere il filo del ragionamento.
Raffaele, un ragazzo di 26 anni con una bella faccia sveglia, mi chiede: «Ma lei si sente uno scrittore?»
Della serie… come puntare una pistola, sparare, e fare centro al primo colpo.
Ho sorriso e ho cercato di rispondere con la massima sincerità. Io poi, che ancora faccio fatica a definirmi scrittore senza sentirmi profondamente in colpa per il mio ardire.
Un altro detenuto mi ha chiesto: «Ma ci dice di cosa parla questo libro? L’importante è che non parli di mafia e camorra… altrimenti non lo leggo.»
«No, non parla di mafia e camorra… tranquillo.»
«Perché basta con tutti questi scrittori che parlano di mafia e camorra, non ne posso più. Come Saviano… lei cosa pensa di Saviano? Per lei Saviano è un essere umano?»
Io guardavo il detenuto che con veemenza mi poneva le sue domande su Saviano e cercavo dentro di me una risposta giusta per quel momento e quel contesto.
«Be’, fino a prova contraria Saviano è un essere umano… »
«Ma a lei piace? Lo considera uno scrittore?»
«Saviano, ormai, è qualcosa di più di un semplice scrittore. È un caso editoriale, un giornalista, un fenomeno mediatico… »
Il detenuto mugugna poco convinto e io vengo salvato dalla domanda di un altro detenuto.
«Perché ha ambientato il romanzo nella sua città?»
«Perché per ambientarlo a Napoli… o a Chicago… dovevo, o trasferirmi lì per qualche mese – cosa che gli scrittori seri fanno spesso – o scrivere un romanzo di fantascienza per reinventarmi la città a modo mio. Ho scelto la via più comoda e meno dispendiosa.»

Finita la presentazione del libro, siamo passati al primo esercizio di scrittura.
Il nostro intento, un po’ folle, me ne rendo conto, è quello di provare a scrivere un romanzo corale.
Dobbiamo partire da un personaggio. Sappiamo che c’è un uomo che si alza una mattina e…
Per venti minuti i detenuti-alunni si impegnano a scrivere un incipit di 10 righe. Poi si leggono tutti gli incipit e si cerca di limare e lavorare quello più riuscito.
Vince, per così dire, l’attacco di Pino.
Poi c’è Enrico, un siciliano di mezza età, con barba brizzolata e occhialetti, che parla forbito – ho saputo che sta studiando filosofia – e cita autori che neanche io ho mai letto.  Non so quanti ergastoli ha collezionato, ma se penso che ha una strage sulla fedina penale – e la coscienza – mi fa strano abbinare quell’immagine tranquilla con quella di uno spietato assassino. Mi ricorda un caro amico cagliaritano e lo straniamento, per me, è ancora più forte.
C’è Mario, un signore con gli occhi chiari, che ha un modo di fare distinto e signorile… lo vedo perfetto per un film di Ettore Scola. Un bel personaggio. Un personaggio che metterei senza problemi dentro un mio romanzo. E non è detto che non ci finisca prima o poi.
C’è Massimiliano, Il Principe, un romano di bella presenza che sembra più un attore teatrale che un detenuto con qualche debito con la società e lo stato. Veste con eleganza e ha un modo di parlare e di muoversi che ti affascina. Ho saputo dalla direttrice del carcere che viene citato da Saviano nel suo libro Gomorra. Insomma, ho in classe un divo e non lo sapevo. Si intuisce subito che non è il tipo che si vanta delle citazioni letterarie prestigiose che lo contemplano. Gli piace molto scrivere, e nelle lezioni successive mi confida che con il progetto del romanzo va avanti per conto suo perché non riesce ad assecondare il ritmo degli altri. Sono certo che ha molte cose da raccontare e leggerò con vero piacere le sue storie.
C’è Carmelo che si lamenta sempre perché lui in cella vuole stare da solo per leggere, scrivere e studiare e non sopporta che i posti letto ora passeranno da due a tre. Scrive sempre e non manca una sola lezione. Ha vinto da poco un concorso letterario con un racconto e si capisce che è fiero di questa crescita personale. Il carcere può fare anche questo… dare un senso allo spazio.  
C’è il bibliotecario che scrive pagine e pagine in modo quasi compulsivo. Ama la poesia e la sua pena senza fine mai lo porterà a scrivere ancora di più. Perché se c’è una cosa che non manca, in carcere, è il tempo.
C’è Daniele, fissato con i cruciverba, che si applica molto poco e ci sono altri detenuti che passano per curiosare e a volte non tornano. Perché la sfida non è cosa da poco. Affrontare le parole. Dominarle. Darle un peso e un valore… mica è un gioco da ragazzi. Ci vogliono palle e tenacia. Più facile trovare una definizione in un cruciverba che mettersi in gioco sfidando i propri limiti.

Mi hanno colpito molte cose in quella prima lezione.
Mi hanno colpito l’educazione e la gentilezza. Mi ha colpito il loro modo di osservare le persone. I detenuti ti guardano dritto negli occhi e ti scavano dentro senza lasciarti scampo. Non siamo più abituati a questi scambi… a queste invasioni… a queste indagini. Ti senti analizzato, spogliato, ma senza giudizio e senza sarcasmo. C’è rispetto e voglia di empatia.
Non si parla del perché si è dentro. A volte, loro, ti raccontano delle cose. Si aprono e ti lasciano scorgere un pezzo della loro disperazione. E tu ascolti, assorbi come una spugna e impari.
Raffaele, durante quella prima lezione, ci ha chiesto con tono polemico: «Ma come posso io lavorare con la fantasia per inventare una storia se sto chiuso dentro quattro mura? Come posso farlo se qui il deserto avanza?»
Io e Giovanni non siamo riusciti a rispondere alla sua domanda.
Ci hanno pensato gli altri detenuti e lo hanno fatto con veemenza e passione.
Il carcere è una dimensione mentale. Sei tu che puoi decidere quanto il carcere ti può prendere e quanto tu, con ostinazione, puoi decidere di non mollare.
Disegnare una finestra in un muro di mattoni, disegnarla con un pezzo di gesso, e immaginare un mondo oltre quei vetri che puoi solo spalancare con la forza dell’immaginazione.
La scrittura è anche questo: inventarsi un mondo e camminarci sopra con la piena consapevolezza che tutto è possibile.

Quando ho salutato i detenuti prima di andare via, ho stretto mani e incontrato occhi e sorrisi che mi hanno fatto sentire a casa.
Ho scritto due dediche nelle copie del libro che ho portato per la biblioteca del carcere e alla domanda… tornerai?... ho risposto… tornerò.
Perché è proprio vero che a volte ci si sente alieni solo fino a quando il nuovo mondo non inizi a respirarlo senza timori e pregiudizi.
Il principe mi ha detto proprio ieri: «Chissà quanto resisterete... sarà dura starci dietro... forse venite per i soldi... forse per i soldi non si molla facilmente la presa.»
«No, Massimiliano, noi non prendiamo soldi e neanche un rimborso spese. Abbiamo scelto di rinunciare ai soldi e di venire da voi solo per la voglia di condividere in modo creativo un pezzo di strada. Tutto qui» ho risposto io, mettendo in chiaro le cose.
«Allora questa scelta vi fa ancora più onore... farei un triplo salto mortale all'indietro se non rischiassi di finire in infermeria» ha ribattuto lui sorridendo.

Un altro passo conquistato. Uno dei tanti in questo mondo-dimensione-universo con le sue regole e le sue leggi. E mentre attraversi il cancello di metallo che ti permetterà di tornare nella tua realtà, sai già che quello sbarco sulla luna ti ha mutato… e anche se non sei Maya, la mutaforma di Spazio 1999… qualcosa, dentro di te, si è trasformato… ha cambiato pelle.
Siamo saliti in macchina, siamo partiti con la nostra navicella spaziale, e ci siamo diretti verso l’uragano Cleopatra. Ancora non lo sapevamo… ma quel lunedì, la nostra isola, sarebbe stata travolta dal fango e dalla disperazione.  

Houston… abbiamo un problema…