giovedì 24 novembre 2016

NON TORNA MAI NESSUNO


Perché io non sogno i morti? 
Perché? 
Ascolto i racconti di mie sorelle e me lo domando da giorni: perché non sogno nonna e zia? 
Perché mi ostino a non elaborare il lutto nel mondo onirico? 
O perché - per chi ci crede - loro non vengono a trovarmi nel regno dove tutto è possibile? 
Sono domande stupide, vuote, lo so. 
Una fila di barattoli bucherellati da prendere a colpi con un bastone di legno. Producono un vago clangore metallico. Un ding che risuona ironico e provocatorio nel silenzio della testa. 
Mi sento in colpa. Perché non succede; perché non ci riesco, perché, forse, non ho memoria. 
Una mia collega ricorda tutti i sogni nei minimi particolari. Io no. Io non ci riesco mai. A me resta solo una sensazione, un sapore, una vaga idea o un'immagine confusa di luoghi e situazioni. 
Mi fa male pensare di non avere più tempo per riparare tutte le cose che non funzionano e che ancora oggi continuano a non funzionare. 
Penso alla morte e la vedo bella sorridente intorno a me. 
Chiede molto, pretende sacrifici importanti. 
Vorrei credere per immaginarmi un "dopo" splendente e luminoso. 
Vorrei credere, ma proprio non ci riesco. 
Mi vedo vagare come uno zombie senza meta e maledico tutto quello che non ho avuto il coraggio di accogliere tra le mie braccia. 
Codardo e ottuso. 
Ho pregato - sì, l'ho fatto - per ricevere un messaggio che mi aiutasse a vivere. Se c'è un dopo devi tornare. Devi. Solo per un attimo. Solo per un lampo brevissimo.
Non è mai tornato nessuno.
Nessuno.

Neppure nei sogni.
Mai.

martedì 22 novembre 2016

CAPODANNO DA MIA MADRE di ALEJANDRO PALOMAS


Capita di inciampare su un autore come in spiaggia capita di farlo sul piede di uno sconosciuto. Il sole ti abbaglia e nonostante tutto, una copertina e un titolo restano dentro la tua testa e non ti mollano più. Uno sgambetto del destino. 
Mi è capitato così con Alejandro Palomas. 
In verità, il romanzo dell'inciampo non è quello di cui mi accingo a parlare, ma il suo ultimo libro, sempre edito da Neri Pozza e sempre tradotto da un ottimo Alessio Arena (anche lui scrittore e musicista), intitolato UN FIGLIO. 


In quel caso, a colpirmi, fu la sinossi del romanzo. Raccontava la storia di Guille, un ragazzino molto particolare che a modo suo cerca di sopravvivere alla scomparsa della madre con l'aiuto maldestro di suo padre. 
Un ragazzino che alla domanda cosa vuoi fare da grande, risponde all'insegnate Mary Poppins, la sua eroina preferita, suscitando nella donna qualche preoccupazione sulla serenità dell'alunno, tanto da convocare il genitore a scuola per parlare della diversità del figlio e capire cosa c'è non funzioni nella sua vita.
Un romanzo delicatissimo dove si narra il rapporto tra un padre e un figlio e si esplorano le bugie dell'anima, quelle che si dicono perché non si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il romanzo mi è piaciuto così tanto che sono andato subito a cercare qualcos'altro dello stesso autore. E così sono inciampato nella copertina, per me bellissima, di CAPODANNO A CASA DI MIA MADRE. 
Lo compro a scatola chiusa, fidandomi di quell'inciampo casuale sul piede di uno scrittore sconosciuto, e mi ritrovo subito a casa. 
Il romanzo, infatti, non solo ha ribadito l'abilità dello scrittore, ma mi ha permesso di esplorare ancora di più il suo mondo letterario. 
Qui c'è un io narrante, ovvero Fer, che vive con un alano di nome Max - un regalo di addio del suo compagno per rendere quel distacco improvviso meno doloroso - e tutta la storia si svolge la notte di capodanno a casa di sua madre Amalia, donna energica che ha il grande dono di reinventarsi ogni volta, dono che sembra mancare ai figli (Fer, Silvia, la figlia maggiore ed Emma, la piccola di casa) tutti incapaci di superare uno stop della vita (Silvia ha perso un bambino ed Emma il grande amore della sua vita). Lei, Amalia, abbandonata dal marito, conosce bene i suoi figli e cerca a modo suo di dire la cosa giusta nel momento giusto, sommergendo le persone che ama di parole, tantissime parole, e sorprese. Le assenze, spesso, determinano le nostre esistenze più delle presenze e intorno a quella tavola, dove siederà anche l'eccentrico zio Eduardo, si tireranno le somme di tante vite rimaste in sospeso, con un filo di ironia che lega i destini dei personaggi e una piccola luce di speranza che sembra splendere alla fine di una notte piena di colpi di scena, fuochi d'artificio, brindisi, rivelazioni e silenzi. 
Romanzo di una delicatezza e di una potenza uniche. In molti passaggi ho ritrovato le dinamiche della mia famiglia e sono sicuro che ognuno di voi può trovare qualcosa di suo tra le pagine di questo romanzo che scava in profondità tra i malesseri e le gioie dell'esistenza. La "sedia delle assenze" è una trovata della madre per fare pace con gli addii. Mettere una sedia a tavola, con tanto di piatto, tovagliolo, bicchieri e posate, per sentire vicine tutte le persone che sono andate via per un motivo o per un altro. E questo Natale, nella mia famiglia, io lo so già, la sedia delle assenze sarà piuttosto affollata e "ricca di vita".


lunedì 21 novembre 2016

IL TRAMONTO DEL BOLLINO




Questa mattina mi sono recato nella solita edicola dove compro i fumetti e i giornali. Mentre aspetto il mio turno per pagare quello che ho preso - una signora è indecisa su quale rivista di uncinetto comprare - alzo la testa e sopra lo scaffale dei fumetti, nella parte alta del chiosco, noto i DVD porno. 
In realtà sapevo che si trovavano disposti negli scomparti più alti, ma non mi ero mai soffermato a osservare le cover delle confezioni. Noto un particolare strano e penso di aver visto male io, ingannato, semmai, dalle luci al neon. Mi sposto ancora più di lato - mentre la signora visiona altre riviste di uncinetto con l'edicolante - per vedere meglio e scopro che i miei occhi non hanno visto affatto male: davanti a me, ben visibili, ci sono dei DVD porno dove nulla è lasciato all'immaginazione. La "cosa strana" era proprio quello che sembrava, ovvero una cappella turgida tenuta bella stretta dalla mano di una ragazza che si accinge a fare quello che potete immaginare. Resto per un attimo interdetto: ma è possibile che un'immagine così esplicita sia esposta sopra i fumetti dove tutti, bambini compresi, possono vederla? 
Osservo meglio e scopro che anche altre cover mostrano tutto quello che c'è da mostrare: sesso maschile eretto e sesso femminile bello esposto in pose molto esplicite. Vorrei fotografare l'esposizione, ma alla fine lascio perdere. 
Esco dal chiosco sorpreso, perché mi ricordo benissimo quando gestivo io un'edicola a Sassari - sono passati ormai più di vent'anni - e ricordo le VHS porno che mi arrivavano (il DVD non era ancora così diffuso). La ditta mi forniva dei bollini adesivi per coprire le parti spinte nelle cover delle confezioni e quando una cover era troppo spinta o allusiva - anche con gli adesivi - evitavo di esporla. Anche così, non mancavano i clienti che si lamentavano per la vetrina dedicata al porno. Ovviamente non ho mai rinunciato a certi prodotti; garantivano lauti guadagni in un periodo dove internet non era ancora così diffuso e invasivo e certe trasgressioni le venivi a cercare proprio nell'edicola più lontana da casa tua. E sì, perché questa era una regola fissa: i miei clienti non compravano mai porno (o non lo compravano da me perché si vergognavano e preferivano cercare in altri punti vendita dove nessuno sapeva nulla di loro) e io vendevo Cicciolina e Moana Pozzi a clienti di passaggio che spesso venivano solo per quel motivo: garantirsi un bel carico di pornazzi. 
Il momento preferito era la mattina presto tra il sabato notte e la domenica mattina. 
Io aprivo il chiosco alle 5 e mezza del mattino e a quell'ora giravano molti disperati del sabato sera, imbottiti di alcol e con i timpani ancora sincopati dalle casse di qualche discoteca cittadina.
Ora il mondo del porno è completamente cambiato e tutti possiamo avere tutto - e gratis - con un semplice click. Eppure c'è ancora qualcuno che compra i pornazzi in edicola e siamo andati così avanti che anche i bollini censori sono scomparsi del tutto. La forza del progresso, boys&girls!


Foto di Erwin Olag

sabato 12 novembre 2016

ESULI ETERNI


Thilde Jensen è una fotografa danese la cui carriera emergente è stata messa a dura prova quando un grave attacco di Sensibilità Chimica Multipla (MCS) l'ha costretta a rivedere tutta la sua vita e le sue abitudini, spingendola a fuggire dalla vita urbana per rifugiarsi in un campeggio in mezzo ai boschi. Per interagire con la società moderna è costretta a indossare un respiratore. Nelle Canarie, le sue foto, documentano la vita di altre persone affette dalla sua stessa malattia (o allergia estrema) che vivono come dei rifugiati in un mondo dominato dalla chimica. Un mondo da dimenticare, dove non potranno più tornare. Esuli eterni.
















giovedì 10 novembre 2016

IL SORRISO DEL GIROVITA


Oggi ho fatto quello che odio di più fare e che faccio quando sono proprio costretto dagli eventi o con l'acqua alla gola (vedi pantaloni che non entrano più nonostante ti cospargi le gambe con diversi barattoli di vasellina!): sono uscito con un'amica compiacente - poveretta! - per cercare capi d'abbigliamento che fascino il mio delizioso corpicino. Esperienza sempre sconvolgente che mette in seria crisi la mia autostima già al collasso. Prima tappa: un negozio dove spero di trovare dei pantaloni. Ne provo sette vicini al mio gusto. Uno solo mi entra. Eh, sì, diversamente dal solito, qui, le misure grandi (50) non esistono o sono casi rari. Dobbiamo essere tutti slim o siamo irrimediabilmente fottuti. Prendo l'unico pantalone che mi entra - tra l'altro con un colore che non mi convince nulla e mi ricorda la cacca del cane del vicino quando ha mangiato qualcosa di pesante - per giustificare la lotta combattuta nel loculo-spogliatoio dove non sai dove cacchio appendere le cose e ti imbarazza pensare che la gente, di te, vede solo i piedi e le calze mentre ti bisticci con te stesso. Le calze me le metto sempre nuove quando vado a comprare pantaloni perché temo il buco sull'alluce e le risatine di scherno.
Seconda tappa: un grande magazzino per cercare delle camicie e un giubbotto. Allora, il giubbotto non sono riuscito a trovarlo perché non c'era mai una taglia giusta che mi cadesse in modo decente, le camicie, invece, le ho trovate. Almeno quelle. Tutte large e tutte comode. Effetto boscaiolo. Ololaiuuuuu...
In compenso ho fatto incetta di mutande e calze. Immensa soddisfazione rinnovare l'intimo con robe colorate e sceme per dare un tocco divertente ai tuoi spogliarelli notturni (non si sa mai... potrei venire messo sotto da un camion e non è il caso di farsi trovare non "a posto" sotto i vestiti. Me lo dice sempre la mamma!). E per finire mi sono regalato anche una sciarpa morbidissima che fa molto fashion e ti fa sentire molto alla moda, anche senza la camicia slim e il pantalone elastico a super-sigaretta che ti lascia scoperte le caviglie. .
Per finire, la mia amica molto saggia, mi ha portato in un negozio bio per farmi comprare subitissimo una tisana drenante e una tisana sgonfiante.
"Vedrai come ti sorriderà il giro-vita!", mi ha detto tutta felice.
Si accettano scommesse. :/

lunedì 7 novembre 2016

DOPO CINQUECENTO ANNI di VALENTINA CAPALDI


Molti pensano che scrivere fantasy sia semplice. 
Lo pensano gli aspiranti scrittori che sottovalutano un genere molto complesso e articolato. E lo pensano molti lettori che snobbano certe storie classificandole come una massa di cretinate senza senso. 
La magia dovrebbe risolvere tutti i problemi e gli snodi della trama. La fantasia cavalcare libera tra le pagine senza preoccuparsi troppo della coerenza e della credibilità della storia. Niente di più sbagliato. Come insegna il maestro Terry Brooks, per usare la magia si paga sempre un prezzo, a volte altissimo. Si può perdere la vita, la ragione, le forze, il senso del bene. Non è una scelta indolore. Mai. E aggiungo che rendere credibile una storia dove appaiono fate, gnomi o draghi, è più ben più ostico e complicato che parlare di drammi famigliari, adolescenziali o matrimoniali. Devi creare un nuovo mondo, una nuova realtà, e la devi creare così bene e in modo così dettagliato da rendere il tutto concreto e logico, sebbene il tutto si analizzi sotto un'ottica diversa.
Io personalmente, pur adorando Terry Brooks, amo leggere un po' meno il fantasy classico e mi diverto di più con l'Urban-fantasy, il Dark-fantasy, il Paranormal e, com'è accaduto in questo caso, con un fantasy storico che rivendica una minuziosa documentazione, spaziando in 500 anni di storia. 
Si parte nel 1508 dall'Inghilterra, e si arriva nel 2008 in Germania. Un viaggio lunghissimo che serve ai due protagonisti del romanzo - un demone privato dei suoi poteri dalla maledizione di una strega e condannato a vivere per l'eternità dentro il corpo di un uomo (Rakgat) e un ragazzo, tramutato per mano di un altro sortilegio, in un nano gobbo e deforme (Tighe) - a scovare il Guardiano che custodisce la chiave che apre la porta degli inferi. Porta che permetterebbe a Rakgat di tornare in possesso del suo vecchio corpo da demone e dei suoi poteri, e a Tighe di liberarsi una volta per tutte da quella prigionia fatta di carne e sofferenza. 

Un viaggio che li porterà molto lontano (Francia, Portogallo, America) e li farà incontrare e scontrare con mondi nuovi (bellissima la parte dove finiscono nel bel mezzo di un sacrificio rituale dell'impero Atzeco e quella dove Tighe cerca di convincere il demone della necessità di portare la civilizzazione e la parola di Dio tra quei selvaggi dalle strane abitudini) e inattese svolte del destino.

Un romanzo asciutto, per nulla ridondante o barocco, nonostante l'ambientazione e la trama che avrebbero potuto spingere l'autore a eccedere con i dialoghi, le descrizioni o con petulanti derive nozionistiche che nulla portano di buono al ritmo della storia. Un romanzo affilato come una lama. Una lama che taglia, ferisce e raramente consola. L'ultima parte, quella moderna, è quella più breve e, a dirla tutta, avrei sondato ancora un po' di più le atmosfere e i cambiamenti dei personaggi. Però, a pensarci bene, se un libro ti lascia un po' d'amaro in bocca perché è finito troppo velocemente, l'ultimo boccone lo mandi comunque giù con un leggero languorino ancora da soddisfare. E questa fame non del tutto placata è, per me, il più bel regalo che ti può lasciare una storia. 

sabato 16 luglio 2016

LA PRIMAVERA DI GORDON COPPERNY JR di MATTEO CELLINI



Esistono dei libri particolari. Dei libri che ti parlano in modo diverso. Dei libri che ti toccano in punti del cuore che pensavi spenti per sempre. Capitano di rado, ma quando arrivano, portati dal caso, sono belli come un acquazzone estivo che porta via l'arsura e la sete. 
Mi è successo tre anni fa con CHIEDO SCUSA di Francesco Abate, mi è successo l'anno scorso con IL REGNO DEGLI AMICI di Raul Montanari e mi è successo anche quest'anno con LA PRIMAVERA DI GORDON COPPERNY JR di Matteo Cellini. 
Matteo lo conosco perché anche lui, come me, arriva da quel curioso esperimento che è stato (e ancora è) il Torneo Letterario di Io Scrittore, promosso e organizzato dal gruppo Mauri Spagnol (GeMS). 
Il suo romanzo IO, CATE, edito da Fazi, convinse tutti e non a caso vinse il Premio Campiello Opera Prima. Un esordio fortunato e talentuoso che raccontava la vita di una ragazza obesa, una ragazza speciale prigioniera dentro una gabbia di grasso. 
Ora, Cellini, ritorna con un romanzo completamente diverso. Un romanzo di formazione dove c'è dentro tutta l'America dei nostri sogni adolescenziali, un viaggio, un'amicizia all'apparenza sbilanciata tra un ragazzino (erede di una ricca famiglia che produce attaccapanni) e un uomo di mezz'età che sopravvive vendendo tagliaerba. 
Il loro incontro-scontro sarà casuale. Il signor McCboom busserà alla porta sbagliata, quella della famiglia Copperny appunto, mentre è in corso una rapina per mano di due balordi senza troppo cervello. Gordon è lì, con tutte le sue paure e le sue fragilità, nelle mani di due delinquenti che minacciano di ammazzarlo se il padre non rivelerà loro dove tiene nascosto il bottino. Il padre, uomo freddo e distaccato con in mente solo l'azienda e i fatturati, non cede. E la madre, donna remissiva che non riesce a opporsi alle regole di vita del marito-manager, assiste inerte. Sono tutti prigionieri di ruoli statici e sterili. Ignobili comparse. In quel piccolo teatro degli orrori - Gordon avrà ancora una volta la prova di come il suo valore sia quasi nullo per la scala di valori del padre - esplodono rivelazioni, tranelli e piccole promesse. 
Gordon verrà portato via insieme al venditore di tagliaerba e da quel momento inizierà per lui un viaggio lungo molti km, un viaggio che sarà anche una scoperta e una rinascita per il suo cuore confuso. Un viaggio che non segna solo un percorso su una cartina geografica, ma anche un itinerario dei sentimenti perduti. 

Dopo la lettura ho sentito il bisogno di fare qualche domanda a Matteo. Ecco a voi il frutto della nostra conversazione. 

Come ti è venuta in mente la storia di Gordon? Cosa ha fatto scattare la scintilla? Sei partito da un’immagine? Un personaggio? Un evento? Un proposito?

Gordon è arrivato dopo, in una seconda stesura della storia. Nella prima l’architettura del romanzo era simile – il viaggio andata e ritorno lungo la costa americana – ma il protagonista unico era il venditore di macchinette tagliaerba, McCboom. Gordon è arrivato all’improvviso, correndo per le scale di casa con un casco di Buzz Aldrin sotto il braccio. Mentre correva, io stesso non sapevo perché corresse, e  piangesse, e fosse arrabbiatissimo e deluso. È iniziato tutto in quel momento: io, suo padre e sua madre e il signor McCboom, ci siamo definiti lì: al padre è toccato di essere il motivo della sua rabbia, alla madre la consolazione intermittente a quella rabbia, a McCboom l’improbabile antidoto e, a me, il contenitore di tutto questo.  

Hai visitato i posti che hai raccontato oppure… hai viaggiato con la fantasia? Leggendo i moltissimi riferimenti geografici, spesso minuziosi da morire, mi sono chiesto: ma racconta luoghi conosciuti o…?

Non sono mai stato in quei luoghi; ma quei luoghi sono stati qui: nei film, nelle serie tv, nei libri, nelle canzoni noi abitiamo più di ogni altro paese l’America. Il nostro immaginario è quello. E volevo voltolarmici e abbracciarlo: è stato un vero piacere scoprirne la geografia minuta lungo la costa, seduto nella Plymouth con McCboom e Gordon; utilizzarne i nomi dei luoghi e delle persone; vedere tutto come fosse un film dei Cohen o Wes Anderson. Geograficamente poi, niente era pianificato: Cape Canaveral non sapevo che fosse esattamente lì, ma quando ho visto l’indicazione sulla mappa ho pensato che potesse essere un bellissimo regalo per Gordon, da parte di McCboom, farglielo (fargliela?) visitare. 

Quando scrivi hai dei riti, delle abitudini particolari che ti aiutano nella creazione?

Scrivo di pomeriggio, tutti i pomeriggi (quando ho una storia da scrivere); produco pochissimo (1000\1500 battute ogni volta) ma ci metto ore; ascolto sempre musica (musica esaltante, che mi sollevi e dia carica); tengo lo schermo inclinato ortogonalmente alla tastiera, perché possa vedere le parole non troppo nitide, definite, nere; scrivo solo con carattere garamond e per ritrovare freschezza nelle diverse riletture aumento e diminuisco lo zoom; giustifico la pagina a destra e sinistra lasciando margini molto estesi; ogni riga scritta deve essere piena di lettere, ché non sopporto troppo bianco tra le parole. Sono pazzo, lo so.

Usi moltissime metafore per rendere più ricca e ardita la tua prosa… e allora penso a cosa mi dice il mio editor… non esagerare con le metafore, appesantiscono la lettura… si vede che tu – e il tuo editor – la pensate diversamente. O sbaglio? 

Le immagini sono parte della mia scrittura ma se fossi convinto che una immagine – metafora, similitudine o paragone – stia lì semplicemente a raddoppiare qualcosa di già detto, a ripetersi, a ribadire - se fosse superflua, quindi - sarei il primo a decidere di toglierla. E lo stesso se fosse lì esclusivamente a dare sfoggio di sé, come se la pagina fosse un espositore di bellissime farfalle. Quando invece credo che una immagine metta meglio a fuoco o proponga significati nuovi o suggerisca un collegamento insolito ma plausibile, faccio di tutto per tenerla.

Terminata una storia, quanto tempo ti occorre per passare a un’altra storia? E c’è qualcosa che lega Gordon a Cate?

Questo non lo so bene, perché non ho una esperienza così grande da poterne trarre un dato statistico mio; di solito però l’editing e i tempi delle case editrici sono piuttosto lunghi e in quei momenti caldi e di belle attese ho iniziato a lavorare, ogni volta, su qualcosa di nuovo. Quel qualcosa di nuovo sono io, perché Caterina, Gordon, McCboom sono parti di me, si costruiscono su parti di me. Adesso sto scrivendo, e in altre storie e in altri personaggi parlo ancora di cose mie: e sono curiosissimo di sapere, quando avrò finito di saccheggiare me stesso, di che cosa scriverò.

Grazie a Matteo per la disponibilità. Le sue risposte sono state per me, lettore avido, piccole luci rivelatrici per capire ancora meglio i meccanismi del suo bellissimo romanzo. Consigliatissimo se vi piace l'idea di salire su una Plymouth per scorrazzare dentro il vostro cuore. 



venerdì 15 luglio 2016

VUOTO D'ESTATE



Sono cadute le foglie
tutte
in piena estate
Sono cadute senza far rumore
di notte
in un coro di addii
Io me ne stavo seduto 
al mio tavolino d'angolo
bevendo caffè amaro
Il mare fuori
fantasma oscuro
rumoreggiava lieve
Ho annusato odore di cera
fumo e sudore
e ho messo in bocca
due pistacchi due
lasciati da un altro avventore 
con un universo di piccole 
briciole di pane
Sono cadute le foglie
tutte
indifferenti alla promessa del mattino
Il mio giardino, ora, è nudo 

Penso a un tavolino orfano
Lontano
Un altro caffè amaro alla fine del mondo
Unica salvezza al vuoto dell'estate

giovedì 7 luglio 2016

IL TRONO DEL LETTORE


Vorrei fare un esperimento uno di questi giorni (facciamo ottobre, vah... che ora sono messo piuttosto male) per capire davvero quanti "veri lettori" mi hanno chiesto l'amicizia dopo aver letto un mio libro. Il metodo per capirlo è piuttosto semplice. Togliendo dalla lista gli scrittori, gli addetti ai lavori (editor, librai, grafici, illustratori ecc.), amici e parenti, cosa rimane? Dite che arrivo a una cinquantina? Io ne dubito. 
I lettori, di solito, leggono... e non si preoccupano di cercare l'autore se non in casi particolari (che ci sono stati) e anche se tu ripeti sempre alle presentazioni: "Fammi sapere cosa ne pensi dopo averlo letto. Mi trovi anche su facebook!", sono pochissimi quelli che lo fanno davvero.
Io, da lettore, l'ho fatto in alcuni casi. Colpito al cuore da un romanzo, ho cercato di saperne di più parlando direttamente con l'autore.
Poi ci sono i personaggi espansivi che ti chiedono l'amicizia e solo dopo due secondi due ti invitano a mettere il like a una decina di pagine personali senza scriverti neppure "ciao, piacere di conoscerti!".
Poi ci sono le tipe fighe che ti vogliono sposare.
Poi ci sono quelli che ci provano parlando del tuo libro.
Poi ci sono gli stalker.
Ecco, dico, dopo una bella scrematura, quanti lettori veri rimangono? Se un giorno faccio l'esperimento, poi vi dico.
Vado in bagno, vah... il trono del lettore mi aspetta. 

martedì 28 giugno 2016

COCCODRILLO



Mi sa che è proprio vero che la scomparsa di certi personaggi pubblici ti colpisce più o meno in base a quanto quel personaggio ha plasmato la tua esistenza. Ovviamente, davanti alla morte, bisogna sempre togliersi il cappello in segno di rispetto.Beh, forse non proprio sempre, sempre. Diciamo "quasi sempre". 
C'è anche tanta brutta gente in giro, diciamocelo, e se schiatta, non dico che brindi alzando i calici al cielo, ma fondamentalmente non te ne frega un fico secco.
Io, al cinema, ho visto solo un film di Bud Spencer quando ero ragazzino, e c'erano di mezzo dei coccodrilli nel titolo. (titolo rimosso). Ci andai con i compagnetti di scuola. Loro erano tutti eccitati e ridevano durante la proiezione come dei debosciati.
Io mi annoiai a morte e mi ripetevo di continuo: "Ma cosa cavolo ci faccio qui?". Prima e ultima volta.
Anche quando trasmettevano i suoi film alla televisione, e mio padre se li guardava se erano di genere western (diciamo western), perché lui guardava tutto quello dove appariva una diligenza, una pentola di fagioli e un indiano a cavallo, io facevo altro. Mi leggevo un fumetto o un libro. Ma scappavo dalla tv.
Non so perché non mi abbia mai "catturato".
Ricordo invece benissimo che rimasi sconvolto dalla visione di un film di Coppola intitolato "I ragazzi della 56a strada", dove recitava un giovanissimo Matt Dillon e una schiera di attori pischelli che diventeranno famosi da lì a pochi anni.
Quello sì che mi sconvolse e mi fece stare male. Si parlava di amicizia, famiglia e onore. E io, come un cretino, fui travolto dalla storia. Provai amore per quei personaggi e nostalgia per loro. Li avrei voluti dentro la mia di vita. Mentre di avere Bud Spencer o l'amico magro con la faccia da volpe (diventato Don Matteo in età adulta) nella mia vita, non mi interessava nulla.
Insomma, ero già strano alle elementari e alle medie la cosa non è migliorata, anzi.
Mi è capitato di vedere da poco un documentario sulla vita artistica di Bud Spencer e mi ci sono soffermato una mezz'ora, ricordando l'amore dei miei compagni per quel gigante con la mano pesante. Era un po' come guardare un documentario sulle piramidi o la foresta amazzonica. Imparavo delle cose che non sapevo, ma emozione zero. Nessun ricordo, se non quell'unico ricordo negativo. Forse mi sono perso un mondo. Forse.
Ps. io, ancora oggi, non riesco a guardare il film di Coppola senza stare male. Uno struggimento pazzesco. Per un film, tra l'altro, sicuramente minore nella sua immensa filmografia. Vai a capire come funziona il cervello e il cuore. Vai a capire.